giovedì 11 ottobre 2007

scuola come ecologia

La scuola è stata una delle più importanti istituzioni dell’umanità.
Grazie ad essa, l’evoluzione si è trasmessa di generazione in generazione favorendo lo sviluppo intellettuale.
Come accade spesso per le grandi scoperte, capita però di non saperle usare, di usarle male o per scopi sbagliati.
Un primo errore è stato quello di valorizzare la qualità e la quantità di nozioni in possesso dell’insegnante e non la sua capacità di trasmetterle agli allievi, sminuendone così enormemente l’efficacia.
Il secondo, quello di sottovalutare l’insegnamento dell’educazione civica, che avrebbe reso più solide le basi della convivenza e preparato ad un uso più corretto di ciò che si sarebbe appreso, lasciando, invece, questo compito ad organizzazioni dogmatiche e illogiche come la chiesa.
Il terzo, l’aver trascurato la formazione artistica per la comprensione di temi come la musica, la pittura, la scultura, l’architettura, il teatro e così via.
Il quarto è stato il progressivo abbandono della formazione complessiva, preferendo favorire la specializzazione.
Creando così un essere umano sempre più “automa”, magari bravissimo in un solo settore ma non in grado di sapere dove potrà portare ciò che sta apprendendo.
In questo modo anche uno scienziato sarà più facilmente al servizio del potente o della dittatura di turno per creare strumenti, magari perfetti e molto efficaci, ma dannosi per l’ambiente e per il resto della comunità, perché, proprio per mancanza di nozioni generiche, non sarà in grado di valutarne gli effetti.
Il quinto, è stato quello di pensare che la scuola fosse una prerogativa della giovane età e che dopo il nostro cervello poteva entrare nel “paese dei balocchi”.
Considerando che non praticando si dimentica tutto, che nel lavoro
si utilizzano solo alcune nozioni specifiche e che è nella natura umana rifuggire dagli impegni se non sono obbligatori, siamo diventati un’umanità di ignoranti.
Per vari anni ci siamo salvati perché attraverso l’informazione, sia su carta o grazie a radio e televisione, abbiamo integrato la mancanza con ciò che di culturale eravamo costretti a recepire.
Quando l’etere era pubblico, i pochi canali radiofonici e televisivi, ci costringevano a seguire programmi specifici a giorni prefissati: teatro, concerti, commedie e documentari oltre che sport e varietà.
Con la privatizzazione dell’informazione, l’interesse dei mass media non è più la “formazione” di un popolo, ma il “ricavo” su di esso.
Portandoci gradatamente alla più grande catastrofe ecologica della storia: quella della nostra mente.
Oggi abbiamo a portata di mano una quantità d’informazione e di cultura enorme grazie anche a computer e internet, ma, come un alunno snobberebbe la scuola se potesse, così, per nostra natura, siamo portati a non usufruirne.
Come il cane che si morde la coda, più il cervello si svuota di neuroni e più cadiamo in basso nella ricerca della qualità.
L’ultimo prevedibile errore ci porterà ad un ulteriore degrado: nella rendita economica derivata dall’audience, c’è, sempre più insistente (oltre che il calcio, quiz stupidi, sesso, gossip, telenovele squallide, fiction infantili, televendite fasulle, maghi e indovine) la propensione a lucrare sugli omicidi sia reali che nella finzione scenica.
Ricordiamoci che un adulto è ancora in grado di darne una valutazione da evento eccezionale, ma per le nuove generazioni, che non vedono e non sentono parlare d’altro, potrebbe diventare normalità “uccidere”. Come lo è l’utilizzo dell’informatica in cui vivono immersi. Ma anche, in negativo, farsi condizionare dalla moda, convivere con la pubblicità, considerare la politica un fatto d’interessi e la democrazia un optional, diventare accaniti tifosi, reputare doveroso bere acqua minerale, sprecare con cellulari e nuove inutili trappole tecnologiche, se non addirittura drogarsi o considerare normalità “miseria guerre e torture”.
Non tutti, naturalmente.

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